Nel primo Novecento europeo molti scrittori avvertirono che
le forme religiose e morali dell’Occidente non riuscivano più a dare senso
all’esperienza interiore dell’uomo moderno. La ricerca di una sapienza diversa
più antica e meno irrigidita dalle istituzioni divenne per alcuni un’urgenza
esistenziale prima ancora che letteraria. Hermann Hesse si colloca pienamente
in questo clima e ne rappresenta una delle espressioni più coerenti e meditate.
Il suo rapporto con l’India non nasce come moda esotica ma
come sedimentazione lenta di letture familiari di viaggi reali e di una
profonda inquietudine spirituale che lo accompagna fin dalla giovinezza. Il
padre Johannes Hesse e il nonno materno erano stati missionari e studiosi delle
religioni dell’Asia meridionale e in casa erano presenti testi sacri tradotti,
racconti di viaggi e riflessioni sul pensiero indiano che lasciarono
un’impronta duratura. A questo retroterra si aggiunse il viaggio compiuto nel
1911 a Ceylon e in Indonesia, che pur deludendolo sul piano pratico rafforzò in
lui l’idea che l’India fosse soprattutto una realtà interiore più che
geografica.
La spiritualità indiana che emerge nei suoi scritti non è
mai una semplice riproduzione dottrinale. Hesse non tenta di diventare un
maestro orientale né di trasmettere una disciplina rituale. Egli utilizza i
grandi temi dell’India classica come la legge dell’azione e delle conseguenze,
la liberazione dalla schiavitù del desiderio, l’unità profonda tra individuo e
totalità come strumenti simbolici per interrogare la crisi dell’uomo europeo.
In questo senso la sua opera più nota ambientata in un’India ideale non va
letta come romanzo storico ma come parabola spirituale.
In Siddharta la figura del protagonista attraversa le
principali vie della sapienza indiana senza identificarsi definitivamente con
nessuna di esse. La via dell’ascesi estrema, la via dello studio, la via
dell’amore e del possesso vengono tutte sperimentate e tutte superate. Il fiume
che diventa maestro silenzioso rappresenta una concezione tipicamente indiana
del reale come flusso continuo in cui ogni opposizione si ricompone. Questa
visione richiama le antiche dottrine dell’unità dell’essere che Hesse conosceva
attraverso traduzioni tedesche dei testi sapienziali.
È importante notare che la sua interpretazione resta sempre
filtrata da una sensibilità occidentale segnata dalla psicologia del profondo.
La liberazione di cui parla Hesse non coincide con l’uscita dal ciclo delle
rinascite così come è intesa nelle dottrine tradizionali, ma con una
riconciliazione interiore tra coscienza e vita. In questo senso l’influenza
dell’India si intreccia con quella di pensatori europei e con l’analisi
dell’inconscio che lo scrittore frequentò direttamente negli anni della crisi
personale.
Anche in altre opere meno esplicitamente orientali la
presenza dell’India resta sotterranea ma decisiva. Il tema del maestro il
rifiuto delle istituzioni rigide, la centralità dell’esperienza diretta sul
dogma, la diffidenza verso ogni forma di moralismo astratto sono elementi che
trovano un chiaro parallelo nella tradizione spirituale indiana così come era
conosciuta in Europa tra Ottocento e Novecento. Hesse vedeva in essa non una
religione alternativa ma una conferma simbolica di una verità universale che
ogni civiltà esprime con linguaggi diversi.
La sua grandezza sta proprio nell’aver evitato sia
l’imitazione superficiale sia il rifiuto difensivo. L’India diventa per lui uno
specchio attraverso cui l’Occidente può riconoscere le proprie mancanze senza
rinnegare se stesso. Per questo la sua opera continua a parlare a lettori di
culture diverse e a offrire un accesso serio e non banalizzato alla dimensione
spirituale orientale. Non una fuga dal mondo, ma un invito a guardarlo con uno
sguardo più profondo e unificato.
Roberto Minichini, dicembre 2025

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