La storia della letteratura accoglie talvolta figure che passano quasi inosservate, pur lasciando un’impronta difficile da ignorare per chi le incontra davvero. Tra queste c’è Leonid Dobychin, nato nel 1894 a Riga quando la città apparteneva all’Impero russo. Visse un’esistenza appartata, segnata da piccoli impieghi e lunghe ore di lettura in biblioteche di provincia. Non appartenne mai a circoli letterari influenti e rimase sempre distante dai toni grandiosi che dominavano la cultura sovietica degli anni Venti e Trenta.
Negli anni Venti si trasferì a Leningrado. Viveva in modo
modesto, lavorava come semplice funzionario e scriveva nei ritagli di tempo. La
sua opera si riduce a pochi racconti e a un unico romanzo, La città di En,
pubblicato nel 1935. L’intreccio è minimo, la narrazione procede per frammenti,
dialoghi smorzati, dettagli apparentemente irrilevanti. Era una forma di
modernismo quieto, attento alle sfumature invisibili della vita quotidiana.
Proprio questa discrezione divenne il bersaglio principale
degli attacchi che lo travolsero. Il contesto storico era feroce. Nel 1934 il
regime aveva imposto la dottrina del realismo socialista come unico stile
legittimo. La letteratura doveva essere chiara, ottimista, edificante,
pienamente allineata alla retorica del progresso sovietico. Ogni deviazione
veniva classificata come sospetta. Formalismo, decadenza, individualismo erano
bollati come segni di diserzione ideologica.
Quando La città di En apparve, la critica ufficiale non vide
in Dobychin un autore timido e rigoroso, ma un nemico silenzioso. Il 13
febbraio 1936 fu convocata una “discussione pubblica” su di lui. In realtà fu
un processo politico mascherato da dibattito letterario. Gli vennero rivolte
accuse pesanti. Lo definirono un formalista che sabotava la chiarezza
socialista, un esteta decadente più vicino alla psicologia borghese che alla
missione educativa dell’arte sovietica. Alcuni critici insinuarono addirittura
che la sua prosa alludesse a una visione della società cinica,
antirivoluzionaria, inadatta a formare l’“uomo nuovo”.
Per un autore riservato, abituato alla misura e alla
discrezione, quell’attacco pubblico fu devastante. Era chiaro che non si
trattava più di gusto letterario ma di un giudizio politico. In quegli anni
molti scrittori, una volta colpiti da accuse simili, finivano rapidamente
cancellati, repressi o arrestati. Dobychin capì che il suo destino era segnato.
Poche settimane dopo la discussione, lasciò casa e
scomparve. Con ogni probabilità si tolse la vita gettandosi nel fiume, anche se
il corpo non venne mai recuperato. La sua sparizione non fu soltanto un gesto
di disperazione personale ma anche un segno della violenza di un’epoca in cui
bastava scrivere con troppa finezza per diventare un sospetto.
Della sua opera resta la precisione assoluta. Frasi brevi,
dialoghi in punta di piedi, scene ordinarie che si caricano di una tensione
silenziosa. Niente di eroico, niente di trionfale. Solo la realtà, osservata
con un rigore che sembrava fatto apposta per contraddire i proclami del tempo.
Rileggerlo oggi significa riconoscere ciò che allora venne
punito: una voce che non urlava, un autore che rifiutava la retorica, una forma
di onestà artistica incompatibile con le esigenze del potere. La sua opera
chiede soltanto attenzione, e in quella attenzione continua a mantenere la sua
limpida forza.
( Testo di Roberto Minichini, novembre 2025 )

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