mercoledì 5 novembre 2025

Gončarov e il suo Oblomov

Ivan Aleksandrovič Gončarov (1812–1891) nacque a Simbirsk, oggi Ulyanovsk, in una Russia ancora contadina, lenta, sospesa tra immobilità e mutamento. Figlio di un ricco mercante, studiò lettere a Mosca, dove assorbì l’eredità classica e il gusto per la chiarezza razionale, ma rimase sempre legato alla memoria delle grandi case sul Volga, ai ritmi ciclici della provincia, a quel senso del tempo disteso che sarebbe diventato la materia viva della sua arte. Trascorse gran parte della vita come funzionario e censore a San Pietroburgo, osservando dall’interno la crisi di una civiltà che non sapeva più conciliare la tradizione spirituale con l’irruzione della modernità. Scrisse tre soli romanzi: Una storia ordinaria (1847), Oblomov (1859) e Il burrone (1869). Ma fu con Oblomov che la letteratura russa si specchiò per la prima volta nel proprio destino metafisico. Pubblicato nello stesso anno de L’origine delle specie di Darwin, il romanzo parve, a chi sapeva leggere in profondità, una contro risposta spirituale all’ideologia del progresso: mentre l’Occidente celebrava l’evoluzione e la competizione, Gončarov narrava la quiete, la resa, il sogno dell’anima che, intuendo l’inconsistenza del divenire, si ritrae. Il protagonista, Il’ja Il’ič Oblomov, non è un pigro, ma un contemplativo alla rovescia, un uomo che sente troppo, che pensa troppo, e che si consuma nel desiderio di un’innocenza irrecuperabile. Tutta la sua vita si svolge tra un letto e un divano: spazi chiusi, ma non meschini, luoghi di sospensione, di nostalgia. Egli non rifiuta l’azione per inerzia, ma per una sorta di pudore dell’anima. Percepisce che ogni gesto implica contaminazione, che l’agire significa abbandonare un’origine silenziosa e limpida. La sua pigrizia è un tentativo, disperato e candido insieme, di restare fedele a quella purezza. Gončarov, con una prosa trasparente e priva di retorica, lo trasforma in una figura di struggente dolcezza: un uomo che non sa tradurre il sogno in gesto, ma non per mancanza di sogno, piuttosto per eccesso di memoria. L’infanzia, la madre lontana, la casa di campagna, la luce del Volga: tutto in lui diventa una patria perduta. La contemplazione, che nelle tradizioni sapienziali è principio di conoscenza e ritorno all’essere, in Oblomov si piega su sé stessa, diventa sonno, sospensione sterile. Ma in quel sonno resta una scintilla di innocenza, un anelito che non mente. E qui sta la sua grandezza: Oblomov non è il ritratto di un fallito, ma la parabola di un’anima che non sa adattarsi al mondo moderno. Troppo buona per la logica dell’efficienza, troppo limpida per il gioco delle ambizioni, troppo contemplativa per le tempeste dell’azione. È un perdente che commuove perché non si ribella né calcola. Egli semplicemente, si arrende alla sua natura. In lui la contemplazione si è fatta carne fragile, malinconia incarnata. Heidegger avrebbe parlato della Verfallenheit, la caduta dell’uomo nell’inautentico. Ma Oblomov non è caduto, è rimasto sospeso, in bilico tra essere autentico e mondo dell’azione. Ha fermato il tempo per non tradire la verità che intuiva senza concetti, che la vita, per non diventare menzogna, deve custodire un ritmo più lento, una tenerezza originaria e pura. In questo senso, egli è una figura tragica ma nobilissima, un contemplativo smarrito che, nonostante tutto, conserva nel suo torpore l’eco di un’armonia perduta. Quando muore, quietamente, tra gesti modesti e affetti semplici, non c’è tragedia ma una pace grave, quasi liturgica. La sua sconfitta è un atto di verità, una resa che illumina e rattrista. Gončarov non lo giudica, lo accompagna dolcemente come un fratello nell’ultimo sonno, e nel suo silenzio riconosce la parte più profonda dell’anima russa, quella che sogna l’assoluto ma si perde nella dolcezza passiva dell’attesa. Oblomov resta, per questo, un romanzo sull’innocenza come destino per alcuni inevitabile e sull’impossibilità di vivere nel mondo e col mondo senza perderla. È il ritratto di un uomo che ha visto la casa dell’essere ma non ha saputo abitarla, e che proprio in questa incapacità diventa simbolo universale. La purezza che non sa incarnarsi, la bontà che non sa muoversi, la contemplazione che, privata del sacro, si addormenta, ma non smette di sognare.

 

Roberto Minichini, novembre 2025

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