Quando ripenso agli anni di prigione di Dostoevskij, non riesco mai a considerarli un semplice episodio biografico. Sono stati una muta forgiatura. Il mattino del 22 dicembre 1849, nel piazzale della fortezza di Semënovskij, gli venne letta la sentenza di morte. Lui stesso ricordò più tardi quelle parole che gli attraversarono il corpo come ghiaccio: “Мне прочли смертный приговор” (“Mi lessero la condanna a morte”). Gli occhi bendati, il plotone schierato. Poi, all’ultimo istante, lo zar commutò la pena. La grazia fu annunciata come una beffa, una rinascita forzata. Non tutti sopravvissero al trauma, ma lui sì, e ne portò per sempre la cicatrice. Era un genio e un’anima nobile, tormentato e sofferente, e proprio per questo capace di trasformare il dolore in visione. Venne spedito ai lavori forzati in Siberia, nella prigione di Omsk, tra il 1850 e il 1854. Dormiva su assi di legno, spesso ammalato, tra criminali comuni che non avevano alcuna simpatia per gli intellettuali. Scrisse nei Quaderni: “Здесь убивают душу медленно” (“Qui si uccide l’anima lentamente”). In una lettera confidò: “Я терпел всё” (“Ho sopportato tutto”), e in un momento di sconforto: “Я не знаю, сколько ещё выдержу” (“Non so quanto ancora resisterò”). Ma seppe anche dire: “Человек шире всего мира” (“L’uomo è più vasto del mondo intero”), frase che rivela quanto il dolore non gli avesse mai chiuso lo sguardo. E ancora, ricordando i compagni di reclusione: “В каждом из них была искра Божья” (“In ognuno di loro c’era una scintilla divina”). Eppure fu proprio in quel mondo degradato che incontrò il popolo russo nella sua forma più nuda, non idealizzata, e nel quale seppe riconoscere la nobiltà della gente semplice, spesso colpevole di crimini gravi per i quali scontava pene durissime, ma mai del tutto spenta; in ognuno di loro lui vide il Cristo sofferente, la possibilità del riscatto e dell’umana grandezza. Lì maturò l’idea che la salvezza passa attraverso una discesa nel fondo dell’uomo. Quando finalmente lasciò Omsk, portava con sé non solo la libertà condizionata ma una nuova visione. A un amico scrisse: “Я воскрес” (“Sono risorto”). Questa risurrezione non fu metafora ma destino. Capire Dostoevskij senza il gelo dell’Omsk, senza il rumore delle catene e il tanfo delle baracche, significa leggerne soltanto l’ombra. Io credo che i suoi romanzi siano il frutto di un’anima che ha attraversato la morte e non ha più avuto paura di guardare l’uomo senza veli. E ogni volta che torno su quelle pagine, la Siberia torna a respirare dentro le parole. I suoi scritti restano universali perché parlano della zona più profonda dell’uomo, e lui era uno scrittore nato, formato da sé stesso, completamente autodidatta, capace di trasformare la propria vita ferita in una lingua che non invecchia.
( Testo di Roberto Minichini, novembre 2025 )