domenica 16 novembre 2025

Ingeborg Bachmann, la maestra della parola lirica


Nata a Klagenfurt nel 1926 e morta a Roma nel 1973, Ingeborg Bachmann è stata una delle voci più radicali ed affascinanti della poesia del secondo dopoguerra. Cresciuta nel pieno della tragedia atroce del nazifascismo, porta per tutta la vita il marchio di un mondo frantumato, incapace di risorgere da solo dalla colpa. La sua scrittura è filosofica, ferita, visionaria, e nasce dal bisogno di cercare un nuovo linguaggio dopo il crollo della verità e della fiducia nella parola stessa. Inoltre la sua poesia non è confessione né lirica pura, ma un campo di lotta, una ricerca di salvezza linguistica e spirituale. Nei suoi versi convivono Wittgenstein e Rilke, Hölderlin e la psicoanalisi, esistenzialismo e una mistica segreta tutta intima e personale. Bachmann non scrive per decorare, per mero sentimentalismo, ma per incidere realmente. La parola è un territorio attraversato da ceneri e scintille, un luogo dove la memoria non è riposo ma lavoro costante e faticoso. Tra le sue raccolte più importanti, Il tempo dilazionato e Invocazione all’Orsa Maggiore rivelano una voce che tende all’assoluto pur restando esposta al dolore dell’amore, alla fragilità dell’identità, alla possibilità della follia. La dimensione erotica non è mai semplicemente femminile o sentimentale: è un rischio ontologico, un varco dove l’essere si espone all’alterità fino a consumarsi. La Bachmann non ha scritto “per le donne”, né “contro gli uomini”, ma contro la menzogna, ovunque si annidi. Il suo femminile è una soglia metafisica luminosa, non retorica o sociologica: un luogo dove il linguaggio tenta di ritrovare dignità, purezza, contatto con il reale non manipolato. Oggi, leggerla, non è affatto nostalgia da bibliofili, ma è terapia dell’anima contro la retorica della superficialità imperante. È un invito a non temere la profondità, perché nessuna verità nasce restando in superficie.

( Roberto Minichini, novembre 2025 )

sabato 15 novembre 2025

Boris Pasternak: la fedeltà alla verità in un secolo di menzogne


Viene considerato da molti fra i più grandi poeti del ventesimo secolo. Boris Pasternak non fu soltanto l’autore di Il dottor Živago. Fu, prima di tutto, un poeta. E come tutti i poeti autentici , da Mandel’štam a Cvetaeva, da Belyj a Blok, visse nel punto più fragile e più alto della coscienza russa: quello in cui la parola, se detta veramente, diventa un atto morale. Nato nel 1890 in una famiglia ebraica colta, cosmopolita e immersa nelle arti, Pasternak vide sin da ragazzo ciò che la Russia stava diventando: un paese attraversato da un desiderio immenso di rigenerazione e, insieme, da un’ombra ideologica che avrebbe divorato tutto. Non si avvicinò mai al partito, né volle diventare dissidente professionale: scelse la terza via, la più pericolosa. Restare poeta. La sua poesia è uno dei vertici del Novecento russo: un intreccio di visioni naturali, coscienza etica e vibrazione musicale. Pasternak vedeva il mondo come un organismo vivente, traboccante di risonanze spirituali; le immagini non erano ornamenti, ma rivelazioni. Nei libri Mia sorella la vita (1922) e Temi e variazioni (1923) la natura esplode come forza radiante, e il verso si libera dai vincoli metrici senza perdere la sua architettura interna. Ogni poesia è un gesto di attenzione assoluta: le cose brillano per un istante ed è in quell’istante che si manifesta il senso dell’esistenza. Negli anni Venti e Trenta, mentre il realismo socialista trionfava, Pasternak pubblicava questi versi di limpidezza quasi mistica, lontani da ogni retorica e vicinissimi alla tradizione spirituale russa. Il suo silenzio apparente in quegli anni non fu codardia, ma resistenza: non voleva tradire la sua voce per compiacere un regime che pretendeva letteratura come propaganda. La svolta arrivò negli anni Cinquanta con Il dottor Živago. Non era un romanzo “antisovietico”: era un romanzo non sovietico, cioè libero. Raccontava la storia di un uomo che non si lascia modellare dall’ideologia, che rimane fedele al fragile nucleo della propria interiorità, della propria pietà, del proprio amore. Era questo, e non altro, a essere intollerabile. La vicenda della pubblicazione è una delle più incredibili della storia letteraria. Nel 1956 Pasternak consegnò il manoscritto alla casa editrice sovietica Novyj Mir, che lo respinse immediatamente definendolo “politicamente inaccettabile”. Poco dopo l’italiano Sergio D’Angelo, emissario della casa editrice Feltrinelli, visitò Pasternak a Peredelkino. Il poeta gli consegnò il dattiloscritto dicendo una frase destinata a diventare leggendaria: «Portatelo fuori dalla Russia. Pubblicatelo.» Feltrinelli, comprendendo l’importanza storica del testo, decise di pubblicarlo nonostante le pressioni internazionali. Nel 1957 Il dottor Živago uscì in Italia in un’edizione che fece il giro del mondo; fu poi tradotto in decine di lingue e divenne immediatamente un caso politico oltre che letterario. Nel 1958 arrivò il Nobel. Pasternak, sotto minaccia di espulsione e consapevole che la sua famiglia sarebbe rimasta senza protezione, fu costretto a rifiutarlo. Morì due anni dopo, quasi isolato, ma con la serenità di chi sa di aver custodito la verità della propria voce. Oggi Pasternak ci ricorda cosa significa essere fedeli a sé stessi quando tutto intorno invita alla menzogna. La sua opera, i versi prima ancora che il romanzo, è una meditazione alta sul rapporto tra libertà interiore, storia e destino umano. Non chiede di essere attuale. Chiede di essere letta. E capita. È questo, oggi come ieri, il suo atto più rivoluzionario.

( Testo di Roberto Minichini, novembre 2025 )

giovedì 13 novembre 2025

Dostoevskij deportato in Siberia

Quando ripenso agli anni di prigione di Dostoevskij, non riesco mai a considerarli un semplice episodio biografico. Sono stati una muta forgiatura. Il mattino del 22 dicembre 1849, nel piazzale della fortezza di Semënovskij, gli venne letta la sentenza di morte. Lui stesso ricordò più tardi quelle parole che gli attraversarono il corpo come ghiaccio: “Мне прочли смертный приговор” (“Mi lessero la condanna a morte”). Gli occhi bendati, il plotone schierato. Poi, all’ultimo istante, lo zar commutò la pena. La grazia fu annunciata come una beffa, una rinascita forzata. Non tutti sopravvissero al trauma, ma lui sì, e ne portò per sempre la cicatrice. Era un genio e un’anima nobile, tormentato e sofferente, e proprio per questo capace di trasformare il dolore in visione. Venne spedito ai lavori forzati in Siberia, nella prigione di Omsk, tra il 1850 e il 1854. Dormiva su assi di legno, spesso ammalato, tra criminali comuni che non avevano alcuna simpatia per gli intellettuali. Scrisse nei Quaderni: “Здесь убивают душу медленно” (“Qui si uccide l’anima lentamente”). In una lettera confidò: “Я терпел всё” (“Ho sopportato tutto”), e in un momento di sconforto: “Я не знаю, сколько ещё выдержу” (“Non so quanto ancora resisterò”). Ma seppe anche dire: “Человек шире всего мира” (“L’uomo è più vasto del mondo intero”), frase che rivela quanto il dolore non gli avesse mai chiuso lo sguardo. E ancora, ricordando i compagni di reclusione: “В каждом из них была искра Божья” (“In ognuno di loro c’era una scintilla divina”). Eppure fu proprio in quel mondo degradato che incontrò il popolo russo nella sua forma più nuda, non idealizzata, e nel quale seppe riconoscere la nobiltà della gente semplice, spesso colpevole di crimini gravi per i quali scontava pene durissime, ma mai del tutto spenta; in ognuno di loro lui vide il Cristo sofferente, la possibilità del riscatto e dell’umana grandezza. Lì maturò l’idea che la salvezza passa attraverso una discesa nel fondo dell’uomo. Quando finalmente lasciò Omsk, portava con sé non solo la libertà condizionata ma una nuova visione. A un amico scrisse: “Я воскрес” (“Sono risorto”). Questa risurrezione non fu metafora ma destino. Capire Dostoevskij senza il gelo dell’Omsk, senza il rumore delle catene e il tanfo delle baracche, significa leggerne soltanto l’ombra. Io credo che i suoi romanzi siano il frutto di un’anima che ha attraversato la morte e non ha più avuto paura di guardare l’uomo senza veli. E ogni volta che torno su quelle pagine, la Siberia torna a respirare dentro le parole. I suoi scritti restano universali perché parlano della zona più profonda dell’uomo, e lui era uno scrittore nato, formato da sé stesso, completamente autodidatta, capace di trasformare la propria vita ferita in una lingua che non invecchia.

( Testo di Roberto Minichini, novembre 2025 )

mercoledì 12 novembre 2025

Dalla stampa estera – Traduzione a cura della redazione Il caso del “filosofo fallito” che si alzò da tavola e non tornò mai più

Tre o quattro anni fa si consumò una vicenda che, nata come fatto privato, è diventata una leggenda urbana raccontata ancora oggi nei caffè, nei salotti e sui social. Lei era una donna di grande intelligenza e prestigio, colta, poliglotta, capace di muoversi con naturalezza tra potere, cultura e affari. I capelli rossi naturali, lo sguardo lucido, la voce ferma: apparteneva pienamente al suo tempo, ambiziosa, aggressiva, determinata. Lui invece era l’opposto. Un uomo fuori tempo, un contemplativo nato nel secolo sbagliato. Parlava troppo, a volte per ore, di filosofi dimenticati, lingue morte, idee che non interessavano a nessuno. Poi taceva per giorni, come se il mondo reale non lo riguardasse. Eppure era di una gentilezza squisita: educato, buono, sensibile, di un’umanità che spiazzava. Salutava perfino gli sconosciuti, ringraziava per ogni piccola cosa, si scusava anche senza motivo. Viveva in un universo suo, dove il tempo non scorreva ma si posava come polvere. Avevano tre figlie molto piccole, tutte con i capelli rossi di lei e gli occhi scuri di lui. Vivevano insieme ma non erano sposati. Lei e la sua famiglia volevano a tutti i costi il matrimonio, una forma, un ordine, una cornice rispettabile. Ma lui rifiutava con una calma ostinata. Diceva che non credeva nei contratti, né nelle cerimonie, né nelle firme. Per lei era un’eresia, per la sua famiglia un’umiliazione. Eppure lei lo manteneva nel lusso. Gli dava denaro “per andare a fare sport”, ma lui lo spendeva nei migliori ristoranti, dove pranzava da solo come un degenerato raffinato, circondato da tovaglie di lino e camerieri in guanti bianchi, dedicandosi ai piaceri della gola con la calma di chi non ha più nulla da perdere. Un pomeriggio alcuni turisti stranieri lo fotografarono in un locale elegante: sedeva da solo davanti a un tavolo enorme, imbandito con ostriche, tonno scottato, riso pilaf con verdure, melanzane grigliate, dolci orientali al miele e due bottiglie di birra analcolica servite in calici da vino. L’uomo, sereno, tagliava piano la carne di pesce con la forchetta in mano, assorto come in un pensiero lontano. Le foto finirono sui social e divennero virali. Lei le vide, riconobbe il posto, prese la macchina e andò di corsa. Lo trovò ancora lì, gentile con i camerieri, calmo, con la forchetta sospesa a mezz’aria. La scenata fu tremenda. Gli urlò contro, lo insultò davanti a tutti, lo chiamò “Oblomov” e poi “Idiota”, gridando che aveva sprecato la sua vita e la sua intelligenza, che era un codardo e un fallito. I camerieri raccontarono ogni dettaglio e in poche ore la storia si diffuse ovunque. Nei bar, negli uffici, nei ristoranti si rideva di quella scena: lei furiosa, lui immobile, educato, con la forchetta in mano e lo sguardo perso altrove. Qualche settimana dopo, durante un pranzo con i parenti di lei, l’uomo si alzò da tavola, posò il tovagliolo e disse semplicemente: «Scusate, torno subito.» Uscì di casa, attraversò la strada e non tornò mai più. Da allora nessuno lo ha più visto. Quella scena divenne il secondo capitolo della leggenda: “Il filosofo fallito che si alza da pranzo e sparisce per sempre.” Lei, furiosa per l’imbarazzo pubblico, decise di porre rimedio. Mandò persone di fiducia, accademici, giornalisti, colleghi influenti e persino un sacerdote esorcista a lei vicino, per convincerlo a tornare o almeno a dare spiegazioni. Ma anche questa iniziativa trapelò e divenne ulteriore motivo di scherno: “La donna di prestigio che manda professori e un prete a recuperare il filosofo fallito.” I nomi circolavano, le risate pure. Lui, nel frattempo, riceveva tutti con la sua solita gentilezza: offriva una birra analcolica, ascoltava, annuiva, ringraziava. Ma non cambiava nulla. Rimaneva fermo, calmo, testardo come un mulo, ma sempre buono, sempre cortese, impenetrabile a tutto. Col passare del tempo, lei tornò a imporsi nel suo ambiente, impeccabile, determinata, cambiando colore ai capelli come si cambia stagione, ogni tinta una dichiarazione di potere. Ma nessun successo riuscì mai a cancellare le due immagini che circolano ancora oggi come simboli di una commedia moderna: lui con la forchetta in mano davanti al tavolo imbandito e poi lui che si alza da tavola e sparisce. E, come concludeva l’articolo originale della stampa estera, forse non abbiamo perso un semplice eccentrico o un uomo fragile, ma qualcosa di più raro: un vero Idiota del ventunesimo secolo.

( Testo di Roberto Minichini )

La reclusa che trasformò il silenzio in rivelazione poetica privata

Emily Dickinson (1830–1886), vissuta per quasi tutta la vita nella casa di famiglia ad Amherst, nel Massachusetts, è la più enigmatica tra i grandi poeti americani. Pubblicò in vita soltanto una manciata delle sue oltre 1700 poesie, spesso manipolate dagli editori; il resto fu scoperto e pubblicato postumo, rivelando un universo poetico completamente fuori dal suo tempo. Reclusa per scelta e per destino, Dickinson trasformò la propria stanza in un laboratorio mistico della parola: lì, tra il giardino e la finestra, esplorò i limiti dell’anima, dell’amore, della morte e di Dio. Il suo linguaggio, fatto di trattini, pause, maiuscole inattese e ritmi irregolari, spezza la sintassi comune per toccare il confine tra linguaggio e silenzio.

In un’epoca dominata da convenzioni religiose e sociali, Emily Dickinson inventò una forma di mistica senza Chiesa, dove la rivelazione non discende dal cielo ma nasce dal cuore che tace. La sua poesia è il diario di un’anima che, rinunciando al mondo, trova nel silenzio la più alta forma di voce.

“Tell all the truth but tell it slant ”

“Dì tutta la verità, ma dilla obliqua”


Roberto Minichini, novembre 2025

domenica 9 novembre 2025

Anna Achmatova , la coscienza poetica della Russia moderna

Anna Andreevna Gorenko (Анна Андреевна Горенко, 1889–1966), nota con lo pseudonimo Achmatova (Ахматова), è una delle figure più alte e tragiche della letteratura russa del XX secolo. Nata nei pressi di Odessa e cresciuta a Carskoe Selo, studiò legge a Kiev e letteratura a Pietroburgo, formandosi nel clima dell’“Età d’Argento” della poesia russa. Fin dall’inizio il suo destino poetico fu legato al movimento acmeista, fondato con Nikolaj Gumilëv (Гумилёв), suo marito, e Osip Mandel’štam (Мандельштам). L’acmeismo propugnava la chiarezza, la misura e la concretezza della parola poetica contro il nebuloso simbolismo dominante, e in Achmatova trovò la sua realizzazione più compiuta. Il suo esordio con Вечер (Večer / Sera, 1912) e la successiva raccolta Чётки (Čëtki / Il rosario, 1914) segnarono una svolta nella poesia russa. Nei suoi versi la dimensione amorosa è trattata con rigore quasi classico: l’emozione si fa forma, il sentimento si condensa in gesto o immagine. Non la confessione, ma la precisione psicologica domina la scena. Белая стая (Belaja staâ / Lo stormo bianco, 1917) chiude la prima fase della sua produzione, offrendo una lirica ancora intima ma attraversata dall’inquietudine storica che precede la Rivoluzione. Dopo il 1917 la vita della poetessa entra in un lungo periodo di oscurità. L’esecuzione di Gumilëv nel 1921 e la crescente ostilità del regime verso gli scrittori “borghesi” la condannarono a un silenzio quasi totale. Pubblicò raramente, visse nella povertà, sotto costante sorveglianza. In questi anni di repressione nacque, in segreto, il suo capolavoro: Реквием (Rekviem / Requiem, 1935–1940). Si tratta di un ciclo poetico che unisce la tragedia personale , l’arresto e la detenzione del figlio Lev, alla tragedia collettiva delle purghe staliniane. I testi, mai scritti interamente su carta per timore della polizia, furono trasmessi a memoria tra pochi amici fidati. Pubblicato in Russia solo nel 1987, Requiem è oggi considerato uno dei massimi documenti poetici del secolo, dove la voce individuale si eleva a simbolo di una nazione intera. Con il successivo Поэма без героя (Poèma bez geroja / Poema senza eroe, 1940–1962), Achmatova costruì un vasto poema autobiografico e allegorico, dedicato alla generazione perduta della Pietroburgo pre-rivoluzionaria. Quest’opera, lavorata per oltre vent’anni, fonde memoria, mito e riflessione etica: una sorta di Divina Commedia del mondo moderno, dove la città si trasforma in teatro delle coscienze e il passato in fantasma. L’ultima fase della sua vita, segnata dalla riabilitazione parziale durante il “disgelo” chruscioviano, vide la pubblicazione di Бег времени (Beg vremeni / Il corso del tempo, 1965), raccolta retrospettiva che riassume la sua intera parabola. Ricevette riconoscimenti ufficiali solo tardi e morì a Domodedovo, vicino a Mosca, nel 1966. La poetica achmatoviana si fonda su una tensione costante fra forma classica e verità morale. Il suo linguaggio, di apparente semplicità, è costruito con un controllo musicale rigoroso; il verso breve, spesso tetrametrico, restituisce una voce colloquiale ma intrisa di risonanze bibliche. Il tono è sempre misurato, mai retorico: anche nel dolore più estremo, Achmatova conserva una dignità formale che trasforma la sofferenza in arte. La sua lirica difende la chiarezza formale contro il caos della storia, e la fedeltà alla parola contro la violenza del potere. Se il simbolismo aveva cercato l’assoluto nel mistero, Achmatova lo trova nella precisione. Ogni immagine è necessaria, ogni silenzio ha un peso etico ben meditato e profondo. Achmatova è, in senso archetipico, la “coscienza lirica” della Russia del XX secolo. In lei convivono la figura della madre dolente e quella della sacerdotessa della parola. La sua poesia non cerca la consolazione, ma la verità: la capacità di nominare il dolore senza deformarlo. Scrivere, per lei, fu un atto di fede nella permanenza dello spirito attraverso la lingua. Per questo la sua voce, più che testimoniare un’epoca, ne costituisce la salvezza.

 

Roberto Minichini, novembre 2025

mercoledì 5 novembre 2025

Gončarov e il suo Oblomov

Ivan Aleksandrovič Gončarov (1812–1891) nacque a Simbirsk, oggi Ulyanovsk, in una Russia ancora contadina, lenta, sospesa tra immobilità e mutamento. Figlio di un ricco mercante, studiò lettere a Mosca, dove assorbì l’eredità classica e il gusto per la chiarezza razionale, ma rimase sempre legato alla memoria delle grandi case sul Volga, ai ritmi ciclici della provincia, a quel senso del tempo disteso che sarebbe diventato la materia viva della sua arte. Trascorse gran parte della vita come funzionario e censore a San Pietroburgo, osservando dall’interno la crisi di una civiltà che non sapeva più conciliare la tradizione spirituale con l’irruzione della modernità. Scrisse tre soli romanzi: Una storia ordinaria (1847), Oblomov (1859) e Il burrone (1869). Ma fu con Oblomov che la letteratura russa si specchiò per la prima volta nel proprio destino metafisico. Pubblicato nello stesso anno de L’origine delle specie di Darwin, il romanzo parve, a chi sapeva leggere in profondità, una contro risposta spirituale all’ideologia del progresso: mentre l’Occidente celebrava l’evoluzione e la competizione, Gončarov narrava la quiete, la resa, il sogno dell’anima che, intuendo l’inconsistenza del divenire, si ritrae. Il protagonista, Il’ja Il’ič Oblomov, non è un pigro, ma un contemplativo alla rovescia, un uomo che sente troppo, che pensa troppo, e che si consuma nel desiderio di un’innocenza irrecuperabile. Tutta la sua vita si svolge tra un letto e un divano: spazi chiusi, ma non meschini, luoghi di sospensione, di nostalgia. Egli non rifiuta l’azione per inerzia, ma per una sorta di pudore dell’anima. Percepisce che ogni gesto implica contaminazione, che l’agire significa abbandonare un’origine silenziosa e limpida. La sua pigrizia è un tentativo, disperato e candido insieme, di restare fedele a quella purezza. Gončarov, con una prosa trasparente e priva di retorica, lo trasforma in una figura di struggente dolcezza: un uomo che non sa tradurre il sogno in gesto, ma non per mancanza di sogno, piuttosto per eccesso di memoria. L’infanzia, la madre lontana, la casa di campagna, la luce del Volga: tutto in lui diventa una patria perduta. La contemplazione, che nelle tradizioni sapienziali è principio di conoscenza e ritorno all’essere, in Oblomov si piega su sé stessa, diventa sonno, sospensione sterile. Ma in quel sonno resta una scintilla di innocenza, un anelito che non mente. E qui sta la sua grandezza: Oblomov non è il ritratto di un fallito, ma la parabola di un’anima che non sa adattarsi al mondo moderno. Troppo buona per la logica dell’efficienza, troppo limpida per il gioco delle ambizioni, troppo contemplativa per le tempeste dell’azione. È un perdente che commuove perché non si ribella né calcola. Egli semplicemente, si arrende alla sua natura. In lui la contemplazione si è fatta carne fragile, malinconia incarnata. Heidegger avrebbe parlato della Verfallenheit, la caduta dell’uomo nell’inautentico. Ma Oblomov non è caduto, è rimasto sospeso, in bilico tra essere autentico e mondo dell’azione. Ha fermato il tempo per non tradire la verità che intuiva senza concetti, che la vita, per non diventare menzogna, deve custodire un ritmo più lento, una tenerezza originaria e pura. In questo senso, egli è una figura tragica ma nobilissima, un contemplativo smarrito che, nonostante tutto, conserva nel suo torpore l’eco di un’armonia perduta. Quando muore, quietamente, tra gesti modesti e affetti semplici, non c’è tragedia ma una pace grave, quasi liturgica. La sua sconfitta è un atto di verità, una resa che illumina e rattrista. Gončarov non lo giudica, lo accompagna dolcemente come un fratello nell’ultimo sonno, e nel suo silenzio riconosce la parte più profonda dell’anima russa, quella che sogna l’assoluto ma si perde nella dolcezza passiva dell’attesa. Oblomov resta, per questo, un romanzo sull’innocenza come destino per alcuni inevitabile e sull’impossibilità di vivere nel mondo e col mondo senza perderla. È il ritratto di un uomo che ha visto la casa dell’essere ma non ha saputo abitarla, e che proprio in questa incapacità diventa simbolo universale. La purezza che non sa incarnarsi, la bontà che non sa muoversi, la contemplazione che, privata del sacro, si addormenta, ma non smette di sognare.

 

Roberto Minichini, novembre 2025