mercoledì 17 dicembre 2025

Il monaco mago (Racconto breve di Roberto Minichini)


Si chiamava Johann Albrecht Weiss, aveva cinquantasette anni, era nato a Graz da una famiglia di funzionari imperiali e aveva preso i voti a diciannove anni seguendo un percorso lineare fatto di studio, disciplina e applicazione costante. La formazione monastica lo aveva modellato attraverso la ripetizione quotidiana di gesti regolati, letture prescritte, lavoro intellettuale ordinato, fino a produrre in lui una struttura mentale stabile e coerente. Nel corso degli anni aveva svolto incarichi di trascrizione e verifica di testi antichi, attività che richiedevano attenzione continua, memoria affidabile e capacità di mantenere una linea di lavoro priva di oscillazioni. Proprio in questo ambito aveva incontrato materiali esclusi dal canone, appunti marginali, sequenze alfabetiche e numeriche prive di attribuzione chiara, resti di una tradizione operativa espulsa per riduzione dottrinale e semplificazione teologica. Johann aveva riconosciuto in quei frammenti una grammatica rigorosa e aveva iniziato a organizzarla come disciplina personale, fondata su ordine, misura e continuità. Il quaderno che compilava funzionava come strumento di lavoro, luogo di registrazione, superficie di verifica. Ogni frase aveva un valore operativo. Ogni formula veniva costruita secondo criteri precisi. La pratica che coltivava si basava sui grimoire tardo medievali e rinascimentali, testi nei quali l’evocazione degli spiriti viene descritta come procedura tecnica fondata su nomi, sigilli, sequenze verbali e scansioni temporali. Evocare significava predisporre condizioni formali capaci di rendere percepibile una presenza secondo modalità definite. Gli spiriti evocati erano intelligenze descritte nei grimoire come legate a funzioni determinate, ambiti circoscritti di conoscenza e forme riconoscibili. La loro manifestazione visibile consisteva in configurazioni stabili, delimitate, dotate di coerenza fenomenica sufficiente a essere osservata e distinta da un contenuto mentale ordinario. Johann verificava ogni operazione con rigore, annotando durata, chiarezza della forma, stabilità della configurazione, effetti cognitivi prodotti. La sua disciplina personale si fondava su continuità e precisione e avrebbe incontrato l’ostilità del bigottismo e del fanatismo di menti incapaci di sostenere una complessità reale. Questo dato faceva parte del quadro generale. Johann Albrecht Weiss proseguiva il suo lavoro con calma vigilante, convinto che l’ordine appartenga alla struttura dell’intelletto e non alle sue semplificazioni.

( Roberto Minichini, dicembre 2025 )

lunedì 15 dicembre 2025

Non ho bisogno di discorsi intelligenti (Poesia di Roberto Minichini)


Ora

Non ho bisogno di discorsi intelligenti

Ma ho bisogno di belle mani

E di occhi arabi meravigliosi

La tua voce, quando la sento

Pura dolcezza

E i tuoi capelli, profumati

Naturali, forti, scuri

Tu sei l’amore incarnato

Che porta bontà e pace

Bacio i tuoi piedi

E non dico nulla

Insegnami come ridi felice

Il tuo segreto, raccontamelo

 

Roberto Minichini, dicembre 2025

Hermann Hesse e la spiritualità indiana


Nel primo Novecento europeo molti scrittori avvertirono che le forme religiose e morali dell’Occidente non riuscivano più a dare senso all’esperienza interiore dell’uomo moderno. La ricerca di una sapienza diversa più antica e meno irrigidita dalle istituzioni divenne per alcuni un’urgenza esistenziale prima ancora che letteraria. Hermann Hesse si colloca pienamente in questo clima e ne rappresenta una delle espressioni più coerenti e meditate.

Il suo rapporto con l’India non nasce come moda esotica ma come sedimentazione lenta di letture familiari di viaggi reali e di una profonda inquietudine spirituale che lo accompagna fin dalla giovinezza. Il padre Johannes Hesse e il nonno materno erano stati missionari e studiosi delle religioni dell’Asia meridionale e in casa erano presenti testi sacri tradotti, racconti di viaggi e riflessioni sul pensiero indiano che lasciarono un’impronta duratura. A questo retroterra si aggiunse il viaggio compiuto nel 1911 a Ceylon e in Indonesia, che pur deludendolo sul piano pratico rafforzò in lui l’idea che l’India fosse soprattutto una realtà interiore più che geografica.

La spiritualità indiana che emerge nei suoi scritti non è mai una semplice riproduzione dottrinale. Hesse non tenta di diventare un maestro orientale né di trasmettere una disciplina rituale. Egli utilizza i grandi temi dell’India classica come la legge dell’azione e delle conseguenze, la liberazione dalla schiavitù del desiderio, l’unità profonda tra individuo e totalità come strumenti simbolici per interrogare la crisi dell’uomo europeo. In questo senso la sua opera più nota ambientata in un’India ideale non va letta come romanzo storico ma come parabola spirituale.

In Siddharta la figura del protagonista attraversa le principali vie della sapienza indiana senza identificarsi definitivamente con nessuna di esse. La via dell’ascesi estrema, la via dello studio, la via dell’amore e del possesso vengono tutte sperimentate e tutte superate. Il fiume che diventa maestro silenzioso rappresenta una concezione tipicamente indiana del reale come flusso continuo in cui ogni opposizione si ricompone. Questa visione richiama le antiche dottrine dell’unità dell’essere che Hesse conosceva attraverso traduzioni tedesche dei testi sapienziali.

È importante notare che la sua interpretazione resta sempre filtrata da una sensibilità occidentale segnata dalla psicologia del profondo. La liberazione di cui parla Hesse non coincide con l’uscita dal ciclo delle rinascite così come è intesa nelle dottrine tradizionali, ma con una riconciliazione interiore tra coscienza e vita. In questo senso l’influenza dell’India si intreccia con quella di pensatori europei e con l’analisi dell’inconscio che lo scrittore frequentò direttamente negli anni della crisi personale.

Anche in altre opere meno esplicitamente orientali la presenza dell’India resta sotterranea ma decisiva. Il tema del maestro il rifiuto delle istituzioni rigide, la centralità dell’esperienza diretta sul dogma, la diffidenza verso ogni forma di moralismo astratto sono elementi che trovano un chiaro parallelo nella tradizione spirituale indiana così come era conosciuta in Europa tra Ottocento e Novecento. Hesse vedeva in essa non una religione alternativa ma una conferma simbolica di una verità universale che ogni civiltà esprime con linguaggi diversi.

La sua grandezza sta proprio nell’aver evitato sia l’imitazione superficiale sia il rifiuto difensivo. L’India diventa per lui uno specchio attraverso cui l’Occidente può riconoscere le proprie mancanze senza rinnegare se stesso. Per questo la sua opera continua a parlare a lettori di culture diverse e a offrire un accesso serio e non banalizzato alla dimensione spirituale orientale. Non una fuga dal mondo, ma un invito a guardarlo con uno sguardo più profondo e unificato.

Roberto Minichini, dicembre 2025

domenica 14 dicembre 2025

Su Guido Morselli


Ci sono scrittori che risultano invisibili ai loro contemporanei non per mancanza di valore ma per un eccesso di rigore intellettuale. Il loro lavoro procede in una zona di isolamento che non ha nulla di romantico e che si traduce in anni di rifiuti editoriali e di silenzio critico. In questi casi la scrittura diventa un esercizio di fedeltà a una visione del mondo più che una carriera letteraria. Il tempo della ricezione non coincide mai con il tempo della composizione e questa distanza produce opere difficili da collocare nelle mode culturali. Guido Morselli rappresenta in modo esemplare questa condizione di autore estraneo al proprio secolo. Nato a Bologna nel 1912 e cresciuto in un ambiente borghese colto ma privo di reale sostegno umano Morselli visse gran parte della sua vita in solitudine tra Milano e la casa di Gavirate dedicandosi a una scrittura metodica e priva di compromessi. Tutti i suoi romanzi furono rifiutati dagli editori durante la sua vita e solo dopo la sua morte nel 1973 iniziarono a essere pubblicati e letti. Tra questi spiccano "Roma senza papa" "Il comunista" "Dissipatio H G" "Divertimento 1889" e "Contro passato prossimo" che mostrano una straordinaria capacita di coniugare immaginazione critica e riflessione storica. In "Roma senza papa" Morselli costruisce una visione della Chiesa privata del suo centro tradizionale mettendo in scena una crisi spirituale che non e polemica ma analitica. In "Il comunista" il confronto con l’ideologia non assume mai i toni della satira ma quelli di una indagine morale sulla fede politica e sulla disillusione. "Dissipatio H G" rappresenta uno dei vertici della sua opera con la descrizione di un mondo improvvisamente svuotato dell’umanità in cui il protagonista resta solo a interrogare il senso dell’esistere e della storia. La critica ha spesso sottolineato come la sua scrittura si collochi fuori dal neorealismo e dalle avanguardie preferendo una prosa limpida controllata e carica di pensiero. Morselli leggeva con attenzione la filosofia la teologia e la storiografia e questo emerge in una narrativa che non separa mai il racconto dalla meditazione. Il suo suicidio avvenuto pochi giorni dopo l’ultimo rifiuto editoriale non può essere ridotto a gesto letterario ma resta il segno drammatico di una vita condotta senza concessioni. Oggi Guido Morselli appare come uno degli scrittori più coerenti e necessari del Novecento italiano capace di parlare a lettori disposti ad accettare la fatica del pensiero e la serietà della forma.

 

Roberto Minichini.

dicembre 2025

sabato 13 dicembre 2025

Philip K. Dick e la verità instabile del moderno


C’è uno scrittore del Novecento che ha trasformato il sospetto in una disciplina della conoscenza e la paranoia in una lente filosofica. La sua narrativa nasce da un conflitto continuo tra ciò che viene vissuto e ciò che viene creduto, alimentato da precarietà economica, relazioni sentimentali caotiche e una dipendenza prolungata dalle anfetamine. La fantascienza diventa così uno strumento critico capace di interrogare identità memoria potere e sacro senza rifugiarsi nell’evasione. Philip K. Dick appare in questo quadro come un autore capace di rendere narrabile il collasso delle certezze moderne senza mai rinunciare alla domanda sul vero. Nato a Chicago nel 1928 e cresciuto in California dopo la morte prematura della sorella gemella Jane, Dick porterà per tutta la vita il tema del doppio e della perdita originaria, come ha mostrato Umberto Rossi nelle sue analisi biografiche e testuali. Questo motivo attraversa romanzi come Martian Time Slip Ubik e Flow My Tears the Policeman Said, dove la realtà si rivela reversibile e costantemente manipolata da forze politiche tecnologiche o psichiche. In The Man in the High Castle la storia stessa diventa ipotesi mentre in A Scanner Darkly l’identità personale si dissolve sotto il peso della sorveglianza e della dipendenza, anticipando letture foucaultiane e post moderne del controllo. Critici come Fredric Jameson hanno letto Dick come il grande narratore della logica tardo capitalistica, capace di mostrare come il potere non agisca più solo attraverso la repressione ma attraverso la produzione di mondi e di simulazioni. Altri come Erik Davis hanno messo in luce la dimensione teologica e gnostica della sua opera, culminata nelle esperienze visionarie del 1974 che Dick tenterà di decifrare per anni nei quaderni dell Exegesis. In quei testi la scrittura diventa un atto interpretativo incessante in cui si intrecciano cristianesimo giovanneo valentinianesimo filosofia greca e teorie dell’informazione. Romanzi come VALIS The Divine Invasion e The Transmigration of Timothy Archer non sono cedimenti al delirio ma tentativi estremi di pensare la rivelazione all’interno di una coscienza moderna ferita e iper razionale. Dick rimane così una figura liminale tra letteratura filosofia e teologia, uno scrittore che ha pagato un prezzo altissimo in termini di stabilità personale per aver preso sul serio le conseguenze metafisiche della modernità tecnologica. La sua grandezza sta nell'aver mostrato che il problema non è distinguere il reale dall’illusione ma comprendere chi controlla i criteri con cui questa distinzione viene fatta.

 

Roberto Minichini

Dicembre 2025

domenica 7 dicembre 2025

Il pensiero di Stanisław Lem tra scetticismo, scienza e immaginazione filosofica


Nato nel 1921 a Leopoli, in una famiglia ebraica profondamente integrata nella cultura polacca, questo autore visse in prima persona l’esperienza dell’occupazione nazista, della perdita familiare, del dopoguerra comunista e di una lunga fase di instabilità culturale che segnò l’Europa centrale del Novecento. Solo dalla terza fase in poi si comprende come la figura di Stanisław Lem emerga da questi eventi non come semplice narratore, ma come un pensatore che ha trasformato la precarietà storica in una forma di lucidità filosofica. Dopo gli studi di medicina a Cracovia, che non completò pur mantenendo sempre un atteggiamento naturale-scientifico verso l’uomo, iniziò a pubblicare negli anni Cinquanta, diventando rapidamente una delle voci più originali della letteratura e della riflessione europea. La sua carriera fu segnata da un rapporto conflittuale con le istituzioni culturali occidentali, come dimostra l’espulsione dalla Science Fiction Writers of America negli anni Settanta, episodio che non intaccò minimamente la sua autonomia intellettuale.

Lem era un razionalista critico, affascinato dalla scienza, ma refrattario a ogni ingenua mitologia del progresso; attratto dalla tecnologia, ma fermo nello smascherarne le promesse eccessive e la tendenza a creare illusioni concettuali. Nella Summa Technologiae, il suo testo più radicale, affronta la modernità come un enorme laboratorio di possibilità e rischi, analizzando l’idea stessa di simulazione, le ambiguità dei modelli matematici, la fragilità delle previsioni scientifiche e l’oscillazione continua tra ciò che possiamo costruire tecnicamente e ciò che possiamo realmente comprendere. La sua prosa saggistica non è mai divulgativa in senso debole, è un esercizio di vigilanza epistemica, una critica appassionata alla riduzione della complessità a slogan o strumenti narrativi rassicuranti.

La dimensione ironica rappresenta il controcanto del suo lavoro teorico. Nei racconti della Cyberiada Lem mette in scena un universo popolato da logici, inventori e creature meccaniche che, attraverso il paradosso e l’assurdo, rivelano la fragilità dei nostri procedimenti mentali. La comicità diventa un metodo di indagine, mostra come la ragione, se non è sorvegliata da un’autentica consapevolezza dei suoi limiti, scivoli facilmente nell’autocontraddizione. È lo stesso impulso che anima romanzi come Solaris, dove l’enigma non è mai un rompicapo da risolvere, ma una dimostrazione narrativa dell’insufficienza dei nostri strumenti interpretativi. Nei decenni successivi, opere come Eden, Il pianeta del silenzio e La voce del padrone rafforzano questa intuizione, ciò che chiamiamo “realtà” non è mai indipendente dai modelli con cui tentiamo di afferrarla, e ogni tentativo di descriverla rivela il confine invisibile tra ciò che possiamo pensare e ciò che resta fuori dal nostro orizzonte concettuale.

La biografia di Lem, intrecciata con i disastri del secolo, con le tensioni politiche e con la difficile condizione intellettuale della Polonia del dopoguerra, contribuisce a spiegare la durezza e, nello stesso tempo, la sobria eleganza della sua visione. Morì nel 2006, lasciando un’eredità che oggi appare più attuale che mai, una filosofia della cautela, un’etica della responsabilità cognitiva, un invito costante a non farsi sedurre né dalle semplificazioni ideologiche né dall’euforia tecnologica. La sua opera costituisce un monumento alla complessità, una difesa della ragione come disciplina e non come idolatria, un appello a riconoscere che pensare significa soprattutto misurare la distanza tra ciò che sappiamo e ciò che non possiamo ancora nominare.

 

Roberto Minichini, dicembre 2025 

martedì 2 dicembre 2025

La misura segreta dell’amore in Puškin


Ogni vero e profondo sentimento nasce da una rivelazione che ci coglie impreparati eppure ci mette subito a nudo. Le poesie d’amore di Aleksandr Puškin non sono esercizi di stile o frammenti sentimentali sospesi nel vuoto, nascono da volti reali, situazioni documentate e momenti precisi della sua vita, spesso segnati da tensioni che lui trasforma in limpidezza poetica. L’amore, per Puškin, è sempre un fenomeno concreto prima di diventare simbolo, e proprio per questo i suoi versi mantengono una freschezza inalterata. Quando nel 1825 incontra Anna Kern nella casa del generale Olenin, a Pietroburgo, rimane colpito da quella che definì più tardi «una presenza che illumina l’aria». Da quell’incontro nasce il celebre componimento che si apre con «Ricordo un istante meraviglioso», scritto nel 1825 e rivisto più volte. Kern non fu soltanto una musa: rappresentò per lui il modello della bellezza che visita l’uomo e poi scompare, lasciando una traccia interiore. Da questo rapporto, complesso e non corrisposto, deriva anche “Я вас любил” (“Vi ho amata”), scritto nel 1829, dove la rinuncia è trattata con un controllo sorprendente. Il celebre verso “possa un altro amarti come Dio voglia” non è una formula lirica, corrisponde a una scelta reale, quasi ascetica, fatta da Puškin per non scivolare in un sentimentalismo lamentoso o accusatorio. La sua grandezza sta nella capacità di trattenere l’emozione senza negarla, rendendo la discrezione più eloquente di qualsiasi dichiarazione enfatica. Un ruolo diverso, ma altrettanto incisivo, è quello di Natal’ja Gončarova, che Puškin sposa nel 1831. Le poesie dedicate a lei non hanno il tono sospeso riservato a Kern, ma rivelano un legame più terreno, attraversato da entusiasmo, idealizzazione e inquietudine. Alcuni versi precedenti al matrimonio, come quelli del componimento “Talismano” (1827), sono stati interpretati dagli studiosi come indizi della nascita di un sentimento che Puškin viveva con una forma peculiare di devozione. L’amata diventa un punto di riferimento simbolico, un segno che custodisce la direzione della sua vita. Dopo le nozze la sua scrittura cambia: il poeta osserva Natal’ja nel pieno della mondanità moscovita e pietroburghese, e la poesia registra questa oscillazione tra ammirazione e timore. Queste tensioni accompagneranno la coppia fino agli ultimi mesi del poeta, segnati dall’ondata di maldicenze che sfocerà nel duello del 1837, evento che getta una luce particolare sulle poesie nate negli anni precedenti, dove si intuisce una specie di vigilanza interiore, come se Puškin percepisse che ogni passione comporta un prezzo profondo. Meno nota al grande pubblico, ma decisiva per comprendere il suo modo di amare, è la figura di Ekaterina Karamzina, moglie dello storico Karamzin. Il loro legame non fu mai ufficiale, né pienamente vissuto, ma alcune brevi poesie a lei dedicate mostrano un’altra sfumatura della sensibilità di Puškin, l’attrazione trattenuta, la consapevolezza di un limite sociale invalicabile, la necessità di esprimere un sentimento intenso in forma minima. Quando Puškin scrive pochi versi per lei, sceglie la forma più essenziale possibile; niente enfasi, niente descrizioni elaborate: solo l’accenno a un movimento dell’anima che non può diventare storia. È qui che emerge con forza la sua capacità di dire molto attraverso pochissimo, lasciando che la poesia assuma la funzione di uno sguardo trattenuto. Nel complesso, le poesie d’amore di Puškin non costituiscono un unico discorso continuo ma una geografia sentimentale, un insieme di punti che si illuminano a vicenda. Kern rappresenta l’apparizione che risveglia; Gončarova, la presenza che accompagna e allo stesso tempo inquieta; Karamzina, il desiderio che rimane sospeso. In tutte queste figure l’amore non è mai pura emozione ma esperienza che mette ordine nel caos della vita. Puškin comprende che ogni volta che l’amore si manifesta, rivela contemporaneamente ciò che siamo e ciò che ci manca. Per questo la sua poesia rimane attuale, non parla a chi cerca frasi ad effetto ma a chi riconosce nell’amare un gesto conoscitivo, un modo per misurare la propria verità interiore. Pubblicare e rileggere oggi questi versi significa accettare che l’amore, nella sua forma più alta, non è una fuga dalla realtà ma il modo più diretto per guardarla senza illusioni, trasformando l’esperienza personale in parola duratura.

( Roberto Minichini, dicembre 2025 )