domenica 30 novembre 2025

Leonid Dobychin: la vita discreta e l’opera essenziale di uno scrittore russo da riscoprire


La storia della letteratura accoglie talvolta figure che passano quasi inosservate, pur lasciando un’impronta difficile da ignorare per chi le incontra davvero. Tra queste c’è Leonid Dobychin, nato nel 1894 a Riga quando la città apparteneva all’Impero russo. Visse un’esistenza appartata, segnata da piccoli impieghi e lunghe ore di lettura in biblioteche di provincia. Non appartenne mai a circoli letterari influenti e rimase sempre distante dai toni grandiosi che dominavano la cultura sovietica degli anni Venti e Trenta.

Negli anni Venti si trasferì a Leningrado. Viveva in modo modesto, lavorava come semplice funzionario e scriveva nei ritagli di tempo. La sua opera si riduce a pochi racconti e a un unico romanzo, La città di En, pubblicato nel 1935. L’intreccio è minimo, la narrazione procede per frammenti, dialoghi smorzati, dettagli apparentemente irrilevanti. Era una forma di modernismo quieto, attento alle sfumature invisibili della vita quotidiana.

Proprio questa discrezione divenne il bersaglio principale degli attacchi che lo travolsero. Il contesto storico era feroce. Nel 1934 il regime aveva imposto la dottrina del realismo socialista come unico stile legittimo. La letteratura doveva essere chiara, ottimista, edificante, pienamente allineata alla retorica del progresso sovietico. Ogni deviazione veniva classificata come sospetta. Formalismo, decadenza, individualismo erano bollati come segni di diserzione ideologica.

Quando La città di En apparve, la critica ufficiale non vide in Dobychin un autore timido e rigoroso, ma un nemico silenzioso. Il 13 febbraio 1936 fu convocata una “discussione pubblica” su di lui. In realtà fu un processo politico mascherato da dibattito letterario. Gli vennero rivolte accuse pesanti. Lo definirono un formalista che sabotava la chiarezza socialista, un esteta decadente più vicino alla psicologia borghese che alla missione educativa dell’arte sovietica. Alcuni critici insinuarono addirittura che la sua prosa alludesse a una visione della società cinica, antirivoluzionaria, inadatta a formare l’“uomo nuovo”.

Per un autore riservato, abituato alla misura e alla discrezione, quell’attacco pubblico fu devastante. Era chiaro che non si trattava più di gusto letterario ma di un giudizio politico. In quegli anni molti scrittori, una volta colpiti da accuse simili, finivano rapidamente cancellati, repressi o arrestati. Dobychin capì che il suo destino era segnato.

Poche settimane dopo la discussione, lasciò casa e scomparve. Con ogni probabilità si tolse la vita gettandosi nel fiume, anche se il corpo non venne mai recuperato. La sua sparizione non fu soltanto un gesto di disperazione personale ma anche un segno della violenza di un’epoca in cui bastava scrivere con troppa finezza per diventare un sospetto.

Della sua opera resta la precisione assoluta. Frasi brevi, dialoghi in punta di piedi, scene ordinarie che si caricano di una tensione silenziosa. Niente di eroico, niente di trionfale. Solo la realtà, osservata con un rigore che sembrava fatto apposta per contraddire i proclami del tempo.

Rileggerlo oggi significa riconoscere ciò che allora venne punito: una voce che non urlava, un autore che rifiutava la retorica, una forma di onestà artistica incompatibile con le esigenze del potere. La sua opera chiede soltanto attenzione, e in quella attenzione continua a mantenere la sua limpida forza.

( Testo di Roberto Minichini, novembre 2025 )

sabato 29 novembre 2025

Sono le tue mani (Poesia di Roberto Minichini)


Sono le tue mani

Che muovi con grazia femminile

Quando parli con la tua splendida voce

Che mi fanno credere

Alla presenza degli angeli della bellezza

Spiriti custodi del tuo mistero

 

Roberto Minichini, novembre 2025

giovedì 27 novembre 2025

Abbiamo camminato (Poesia di Roberto Minichini)


Abbiamo camminato

Facendo un percorso insieme

E non abbiamo affatto bisogno

Di maghi o maestri spirituali

Ma di nuda verità e d’amore

Fuori dal circo dell’apparire

 

Roberto Minichini, novembre 2025

mercoledì 26 novembre 2025

Sorriso delle nuvole (Poesia di Roberto Minichini)


Con l'occhio interiore

Tu smascheri i falsi maestri spirituali

Immersi nell’ego e nella frustrazione

E cammini a piedi nudi verso

I deserti molteplici dell’essere

Dove l’armonia integra ogni cosa

E le nuvole stanno sorridendo

Di placida bontà

 

( Roberto Minichini, novembre 2025 )

venerdì 21 novembre 2025

Tolstoj, il pacifismo integrale e la ricerca della verità interiore


La grande letteratura non nasce mai dall’indifferenza morale, ma dall’incontro diretto con ciò che turba e mette alla prova l’anima. Ci sono scrittori che raccontano il mondo, e altri che lo attraversano fino a trasformarlo in una domanda etica rivolta a chi legge. Lev Tolstoj è una figura che sfida ogni semplificazione. È lo scrittore aristocratico che ha attraversato le contraddizioni più estreme della Russia ottocentesca, il giovane ufficiale che ha conosciuto la brutalità disumana della guerra e la vacuità della vita mondana, l’uomo inquieto che per tutta la vita ha cercato una forma di onestà interiore capace di resistere alle maschere ipocrite della società. La sua opera nasce da questa tensione continua, da una sensibilità immensa che non si accontentava di osservare il mondo ma voleva comprendere ciò che vi è di più fragile e disarmato nell’essere umano. Ed è solo dentro questo orizzonte di ricerca personale che può essere compreso il suo pacifismo, che non fu mai un tema ornamentale né un atteggiamento accomodante, ma la conclusione di un lungo confronto con la propria coscienza. Tolstoj vi arriva dopo aver attraversato esperienze che lo mettono a contatto diretto con la sofferenza e con la vulnerabilità dell’uomo: la guerra di Crimea, le ingiustizie della vita rurale, l’aridità emotiva dei salotti aristocratici, la distanza tra i valori proclamati e il modo reale in cui gli uomini vivono. Per lui la pace non è un’idea astratta, ma una necessità interiore. Chi osserva l’essere umano con vera attenzione, chi riconosce la sua debolezza, la sua paura e la sua sete di dignità, comprende che ogni forma di forza imposta genera soltanto nuove ferite. Quando scrive che «non bisogna resistere al male con la forza», indica un cammino che richiede coerenza totale: rifiutare l’odio, la vendetta, la durezza, vivere senza aggiungere altro dolore al mondo, assumersi la responsabilità delle proprie scelte senza delegarla ad altri. Questa visione nasce dentro una biografia segnata da profondi cambiamenti. Nato nel 1828 nella tenuta di Jasnaja Poljana, orfano fin da piccolo, educato in un ambiente nobile che avvertiva come artificiale, Tolstoj cerca per anni una disciplina interiore senza riuscire a trovarla. Si arruola, partecipa alla guerra, insegna ai contadini, fonda una scuola, viaggia in Europa, si lascia affascinare dalle idee pedagogiche più avanzate, osserva le ingiustizie del suo Paese con crescente insofferenza. Le sue crisi morali sono violente, sente di vivere in modo incoerente, poi tenta di raddrizzarsi, poi ricade nei vecchi errori; cerca un senso nella fede, ma non accetta i dogmi, desidera la verità, ma teme di non essere all’altezza. La crisi dei cinquant’anni lo porta a un cambiamento profondo. Adotta una vita più semplice, rinuncia ai privilegi, critica apertamente la Chiesa ufficiale, si dedica alla scrittura di testi etici e religiosi che influenzeranno intere generazioni. Negli ultimi anni la tensione con la famiglia, soprattutto con la moglie Sof’ja Andreevna, si aggrava. Tolstoj desidera una vita di rinuncia, lei teme di vedere dissolversi il patrimonio familiare e l’eredità letteraria che custodisce. Nel novembre 1910, ormai ottantaduenne, fugge dalla sua tenuta in cerca di una pace che sente di non possedere più, si ammala durante il viaggio e muore il 20 novembre nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo, assistito dai medici e dal suo discepolo più fedele, il medico Dushan Makovickij. La sua morte, lontana da casa e immersa nella quiete di un luogo anonimo, è l’ultimo gesto coerente con la sua vita: un distacco dal mondo, un ritorno alla semplicità che aveva sempre cercato. Al di sopra di tutto, però, Tolstoj rimane lo scrittore che ha dato forma a una visione dell’uomo senza precedenti. Guerra e pace è un’opera che contiene un intero mondo, l’opera immensa in cui la storia e l’intimità individuale si incrociano con naturalezza assoluta. Anna Karenina offre una delle analisi più profonde dell’amore, della dignità e della responsabilità personale. La morte di Ivan Il’ič esplora con lucidità ciò che accade quando un uomo riconosce di aver vissuto senza interrogarsi su ciò che veramente conta. La precisione psicologica di Tolstoj è unica, i suoi personaggi sembrano vivere indipendentemente dall’autore, come se si incarnassero di fronte agli occhi dei lettori. È per questa combinazione di ampiezza narrativa, profondità morale e chiarezza interiore che, pur rispettando il genio visionario di Dostoevskij, la modernità soffusa di Čechov e la grandezza fondativa di Puškin, si può dire che Tolstoj è probabilmente il più grande scrittore russo. In questa grandezza il suo pacifismo non è un’aggiunta secondaria, ma la conseguenza naturale di uno sguardo che non ha mai smesso di cercare la verità dell’uomo. Vivere senza violenza, per lui, significa riconoscere la comune fragilità, rispettare la vita in ogni sua forma, non nascondersi dietro giustificazioni comode e assumere fino in fondo il peso della propria coscienza. È un compito difficile, ma Tolstoj ci chiede almeno di non distogliere lo sguardo. E ogni volta che lo leggiamo, questa richiesta continua a interrogarci con la stessa forza dei suoi personaggi.

 

Roberto Minichini, novembre 2025

domenica 16 novembre 2025

Ingeborg Bachmann, la maestra della parola lirica


Nata a Klagenfurt nel 1926 e morta a Roma nel 1973, Ingeborg Bachmann è stata una delle voci più radicali ed affascinanti della poesia del secondo dopoguerra. Cresciuta nel pieno della tragedia atroce del nazifascismo, porta per tutta la vita il marchio di un mondo frantumato, incapace di risorgere da solo dalla colpa. La sua scrittura è filosofica, ferita, visionaria, e nasce dal bisogno di cercare un nuovo linguaggio dopo il crollo della verità e della fiducia nella parola stessa. Inoltre la sua poesia non è confessione né lirica pura, ma un campo di lotta, una ricerca di salvezza linguistica e spirituale. Nei suoi versi convivono Wittgenstein e Rilke, Hölderlin e la psicoanalisi, esistenzialismo e una mistica segreta tutta intima e personale. Bachmann non scrive per decorare, per mero sentimentalismo, ma per incidere realmente. La parola è un territorio attraversato da ceneri e scintille, un luogo dove la memoria non è riposo ma lavoro costante e faticoso. Tra le sue raccolte più importanti, Il tempo dilazionato e Invocazione all’Orsa Maggiore rivelano una voce che tende all’assoluto pur restando esposta al dolore dell’amore, alla fragilità dell’identità, alla possibilità della follia. La dimensione erotica non è mai semplicemente femminile o sentimentale: è un rischio ontologico, un varco dove l’essere si espone all’alterità fino a consumarsi. La Bachmann non ha scritto “per le donne”, né “contro gli uomini”, ma contro la menzogna, ovunque si annidi. Il suo femminile è una soglia metafisica luminosa, non retorica o sociologica: un luogo dove il linguaggio tenta di ritrovare dignità, purezza, contatto con il reale non manipolato. Oggi, leggerla, non è affatto nostalgia da bibliofili, ma è terapia dell’anima contro la retorica della superficialità imperante. È un invito a non temere la profondità, perché nessuna verità nasce restando in superficie.

( Roberto Minichini, novembre 2025 )

sabato 15 novembre 2025

Boris Pasternak: la fedeltà alla verità in un secolo di menzogne


Viene considerato da molti fra i più grandi poeti del ventesimo secolo. Boris Pasternak non fu soltanto l’autore di Il dottor Živago. Fu, prima di tutto, un poeta. E come tutti i poeti autentici , da Mandel’štam a Cvetaeva, da Belyj a Blok, visse nel punto più fragile e più alto della coscienza russa: quello in cui la parola, se detta veramente, diventa un atto morale. Nato nel 1890 in una famiglia ebraica colta, cosmopolita e immersa nelle arti, Pasternak vide sin da ragazzo ciò che la Russia stava diventando: un paese attraversato da un desiderio immenso di rigenerazione e, insieme, da un’ombra ideologica che avrebbe divorato tutto. Non si avvicinò mai al partito, né volle diventare dissidente professionale: scelse la terza via, la più pericolosa. Restare poeta. La sua poesia è uno dei vertici del Novecento russo: un intreccio di visioni naturali, coscienza etica e vibrazione musicale. Pasternak vedeva il mondo come un organismo vivente, traboccante di risonanze spirituali; le immagini non erano ornamenti, ma rivelazioni. Nei libri Mia sorella la vita (1922) e Temi e variazioni (1923) la natura esplode come forza radiante, e il verso si libera dai vincoli metrici senza perdere la sua architettura interna. Ogni poesia è un gesto di attenzione assoluta: le cose brillano per un istante ed è in quell’istante che si manifesta il senso dell’esistenza. Negli anni Venti e Trenta, mentre il realismo socialista trionfava, Pasternak pubblicava questi versi di limpidezza quasi mistica, lontani da ogni retorica e vicinissimi alla tradizione spirituale russa. Il suo silenzio apparente in quegli anni non fu codardia, ma resistenza: non voleva tradire la sua voce per compiacere un regime che pretendeva letteratura come propaganda. La svolta arrivò negli anni Cinquanta con Il dottor Živago. Non era un romanzo “antisovietico”: era un romanzo non sovietico, cioè libero. Raccontava la storia di un uomo che non si lascia modellare dall’ideologia, che rimane fedele al fragile nucleo della propria interiorità, della propria pietà, del proprio amore. Era questo, e non altro, a essere intollerabile. La vicenda della pubblicazione è una delle più incredibili della storia letteraria. Nel 1956 Pasternak consegnò il manoscritto alla casa editrice sovietica Novyj Mir, che lo respinse immediatamente definendolo “politicamente inaccettabile”. Poco dopo l’italiano Sergio D’Angelo, emissario della casa editrice Feltrinelli, visitò Pasternak a Peredelkino. Il poeta gli consegnò il dattiloscritto dicendo una frase destinata a diventare leggendaria: «Portatelo fuori dalla Russia. Pubblicatelo.» Feltrinelli, comprendendo l’importanza storica del testo, decise di pubblicarlo nonostante le pressioni internazionali. Nel 1957 Il dottor Živago uscì in Italia in un’edizione che fece il giro del mondo; fu poi tradotto in decine di lingue e divenne immediatamente un caso politico oltre che letterario. Nel 1958 arrivò il Nobel. Pasternak, sotto minaccia di espulsione e consapevole che la sua famiglia sarebbe rimasta senza protezione, fu costretto a rifiutarlo. Morì due anni dopo, quasi isolato, ma con la serenità di chi sa di aver custodito la verità della propria voce. Oggi Pasternak ci ricorda cosa significa essere fedeli a sé stessi quando tutto intorno invita alla menzogna. La sua opera, i versi prima ancora che il romanzo, è una meditazione alta sul rapporto tra libertà interiore, storia e destino umano. Non chiede di essere attuale. Chiede di essere letta. E capita. È questo, oggi come ieri, il suo atto più rivoluzionario.

( Testo di Roberto Minichini, novembre 2025 )